lunedì 22 marzo 2010

DCA: Cosa si cela dietro ad un sintomo che coinvolge corpo e cibo? (seconda parte) di Cristina Grassini

Il cibo è essenzialmente e originariamente un nutrimento e fin dagli inizi della vita dell’uomo è stato consumato in un contesto interazionale con la conseguenza che è stato investito di molteplici valenze psicologiche. Tanto che solo poche altre attività umane sono altrettanto ricche di elementi sociali, ideologici, religiosi, emotivi come l’atto del mangiare. Inoltre nella storia dell’uomo si sono alternati periodi di abbondanza a drammatiche carestie e quindi periodi dove diventava difficile “controllarsi”, dato l’esubero di alimenti, a periodi di stento, di parsimonia e di mancanza.
Quando la quantità di cibo presente in una cultura supera abbondantemente il fabbisogno ( come nei paesi Occidentali) per la sopravvivenza può avvenire che il cibo acquisisca un valore simbolico che, ripetiamo, può essere di ordine affettivo, religioso, sociale.
Alcune volte può accadere che nella relazione che lega il soggetto e il cibo si manifesti un meccanismo proiettivo in cui il cibo diventa il sostituto di una persona; in questo caso entrano in gioco due elementi: il controllo e la dipendenza. Questi elementi sono gli stessi che si manifestano nelle relazioni affettive, ossia sono impliciti alla natura stessa delle relazioni affettive, infatti, può verificarsi il seguente rapporto: tanto più sono legato ad una persona affettivamente (dipendenza) tanto più rischio di soffrire se la perdo e da qui deriva la necessità di controllarla (controllo). Quando il cibo sì “carica” di una valenza affettiva, allora i soggetti incapaci di gestire gli aspetti della dipendenza e del controllo nelle relazioni con gli altri, trasferiscono tutto il loro vissuto nel cibo. Il cibo si presta molto bene a questa “strumentalizzazione”, nel senso che tutti noi siamo dipendenti dal cibo sin da quando nasciamo e poi perché oggi, nelle culture “benestanti” come la nostra, l’offerta di cibo è tanta e sostenuta da una pubblicità martellante e sempre più attraente per cui controllarsi diventa sempre più difficile. Addirittura sembra quasi che ci sia una sorta di “animismo” verso gli alimenti: “Gli spaghetti che mi provocano” o il “dolce che mi tenta”; in realtà siamo noi che proiettiamo i nostri sentimenti sul cibo.
Il pensiero di un’anoressica può essere questo: “Se io sono tanto brava da riuscire a non dipendere dal cibo, sarò anche più brava a gestire le relazioni con gli altri”. Tale tipo di ragionamento il più delle volte non è riconosciuto a livello cosciente dalle ragazze, però la capacità di esercitare un ferreo controllo fa vivere loro una sensazione di forza, potenza, superiorità nei confronti degli altri, tanto da guardare con schifo chi si piega a mangiare. Nella vita quotidiana queste ragazze, sono delle attente osservatrici a tavola e incoraggiano a mangiare (perdere il controllo) chi sta loro accanto, fratelli, amiche, fidanzato, genitori. Vedere “L’altro” mangiare le fa sentire forti, potenti e per questo diventano anche delle brave cuoche disposte a trascorrere ore tra i fornelli, sostituendosi anche alle madri, a preparare menù prelibati ma senza cedere mai alla “tentazione” di mangiare. Ciò significherebbe perdere il controllo, cedere anche loro, come tutti gli altri del resto, alle tentazioni terrene del cibo e rischiare di ingrassare, e questo per l’anoressica è inaccettabile. Si apre qui un altro aspetto del disturbo, ossia quello legato al rapporto del soggetto con il proprio corpo.
Sappiamo come presso i Greci il corpo, pura necessità biologica, era fuori dallo spazio politico, basato sulla ragione pura, incorporea. Il corpo era considerato donna e la donna era corpo. Il maschio si era riservato la potenza del "logos", sradicandosi da un'esistenza carnale, quasi animale, preumana, quindi femminile. Per migliaia d'anni la donna è stata confinata nei territori del corpo. Anche oggi per la donna le cose non sono cambiate molto, “l’apparenza”, l’aspetto fisico, restano il miglior biglietto da visita per ogni occasione sociale.
Un corpo grasso oggi è un corpo non desiderabile.
Perché la moda richiede di essere magre e sofisticate e si è capovolto il significato sociale che veniva attribuito all’essere grassi e magri in passato: essere grassi significava benessere, ricchezza e il prototipo di corpo femminile idealizzato fino a tutto il diciassettesimo secolo era caratterizzato da forme opulente che si accentuavano sul ventre (modello riproduttivo), mentre oggi colui che ingrassa è un debole, uno che non ha sostanza e espressioni di “discriminazione-criminalizzazione-esclusione” sono ormai diffuse tra bambini, adolescenti e adulti. Le donne sono le vittime principali perché è aumentato il narcisismo femminile: alla donna più che all’uomo è richiesto dalla società di essere bella (magra), perché la donna anche nella nostra società tecnologica è rimasta “corpo”. E il corpo desiderato, che si identifica nella magrezza, come segno eccentrico di femminilità, sovverte le regole della potenza della produzione del maschile. In questo senso le modelle alla Twiggy degli anni '60 e '70, ritornate alla ribalta dal recente fatto di cronaca della quindicenne anoressica Lucy Coper, hanno rappresentato un tentativo di normalizzazione della magrezza, riducendola a spettacolo e trasformandola in un “simbolo” della donna nuova.
Quasi tutti gli studi sulla donna sono in realtà studi sul suo corpo, sui significati politici e sociali che veicola implicitamente. Un corpo che rappresenta in modo ambivalente una gabbia che limita l'orizzonte femminile, ma anche la chiave per uscirne. Tutti i discorsi che parlano di liberazione della donna utilizzando il linguaggio del corpo senza consapevolezza dei fili che lo legano al linguaggio del potere, non fanno altro che incanalare una presunta liberazione nei binari che la società predispone. Alle tecniche repressive di una volta si è sostituito nella nostra cultura il dovere di valorizzare il corpo esponendolo a un controllo sociale, che lo svuota della sua carica eversiva. Dalle tecniche alternative come la bioenergetica, la danzaterapia, il recupero del parto in casa fino ai modelli più stereotipati di bellezza e salute femminile (e anche di nudo femminile) dettati dalla moda e amplificati dai mass media, tutto spinge la donna verso il corpo.
E’ ancora il corpo femminile quello più sfruttato e strumentalizzato dal mondo dell’immagine e della televisione per scopi di marketing di prodotti dietetici, ultimo grande “business” del nostro secolo. Il canone estetico proposto dalla pubblicità e dai mass media, ha contribuito ad alimentare l'ideale estetico della magrezza. Interessanti dati emergono dai risultati di un'indagine svolta da Anna Becker (un'antropologa dell'Harvard Medical School) sul cambiamento di attitudini verso il cibo e l'ideale corporeo degli adolescenti delle isole Fiji' (Figi) negli ultimi dieci anni. Nel piccolo arcipelago, dove per tradizione si è sempre apprezzato un fisico massiccio e "rotondeggiante", si è verificato, dopo l'arrivo della televisione nel 1995 un elevato incremento delle diete nonché di disturbi alimentari (sia anoressia che bulimia). Secondo i ricercatori dell'Harvard Medical School la comparsa di tali disturbi sarebbe legata alle immagini ed ai valori veicolati dai programmi televisivi occidentali, imperniati sull'ideale estetico della magrezza. Questo studio seppur parziale contiene alcuni elementi interessanti e ampiamente generalizzabili (fonte BBC online network, BBC news, 20 may 1999) .
La donna di oggi, proprio perché è ancora “corpo”, per essere “accettata” e “rispettata” deve conformarsi fisicamente ai canoni estetici di moda. (Questo “processo”, notiamo, inizia molto presto nella vita della bambina basti pensare come un ideale di bellezza del nostro secolo sia incarnato nella bambola della Barbie. Uno studio di Moser del 1989 ha rilevato che una donna media americana per conformarsi alle misure della Barbie dovrebbe aumentare la propria circonferenza seno di 30 cm., ridurre la circonferenza vita di 25 cm. e essere alta più di 2 metri!)
Ma cosa implica l’essere “accettata/rispettata” oggi? Questa domanda porta in sé una serie di problematiche più ampie e complesse e connesse, in certi aspetti, al cambiamento del ruolo della donna in questi ultimi decenni e al raggiungimento della tanta auspicata parità dei diritti con l’uomo.
Le giovani di oggi si trovano in una condizione di marcata ambiguità in relazione al ruolo femminile, in quanto la società manda due messaggi profondamente contrastanti: da un lato si parla di donna manager, intelligente, colta e indipendente; dall’altro lato, permane l’immagine femminile collegata alla cultura delle nostre nonne, di una donna non colta, sottomessa, che accetta passivamente i compiti sessuali e materni. Si tratta di due modelli “apparentemente” accessibili e diversi, dico apparentemente in quanto alla donna di oggi non è di fatto permesso di “scegliere” l’uno o l’altro, perché nella maggior parte dei casi – sia per ragioni imposte dall’esterno (economiche) o dall’interno (psicologiche) – la donna deve soddisfarli entrambi. Le si richiede quindi di essere perfetta nelle sue tradizionali attività femminili (cura della casa, allevamento dei figli, assistenza ai famigliari più anziani), e nello stesso le si richiede lo sviluppo di quelle capacità di penetrazione sociale e lavorativa quali, determinazione, spregiudicatezza nel fare carriera, dedizione al lavoro, indipendenza economica, prerogative queste che erano un tempo appannaggio del sesso maschile .
Apparentemente quindi la donna ha davanti diverse possibilità di scelta, cosa invece non permessa alle loro madri, ma ogni scelta comporta la rinuncia di aspetti ancora importanti e presenti per la propria realizzazione: importanti sono gli aspetti femminili rappresentati dalla madre, e importanti anche quelli maschili rappresentati dal padre. Spesso i due aspetti non sono integrati nella coppia genitoriale, per cui il solo fatto di scegliere provoca un conflitto. (Santoni Rugiu, Calò, De Giacomo, 2000).
Allora la donna per mascherare la frustrazione derivante da una scelta e per mettere a tacere l’angoscia che da questa ne deriva, accetta palesemente un modello, ma dentro di sé si ripromette di soddisfarli entrambi. E’ un pensiero onnipotente e pericoloso, che però serve da “scudo” ad un ansia di cui non si riesce ancora ad accettarne le origini: è più facile di fatto resistere alla tentazione della fame che soddisfare le rigide aspettative che la “donna nuova” si è prefissata.
Queste teorie trovano anche conferma nell’ ipotesi di Katzman e Lee, che sostengono, come in società in transizione dalla civiltà contadina a quella industriale, le adolescenti potrebbero sviluppare il disturbo alimentare non solo per imitazione degli ideali socioculturali di bellezza occidentale, ma anche come reazione ad una situazione di elevata emotività intrafamiliare, tipica della famiglia in transizione dal modello patriarcale a quello moderno (Katzman e Lee, 1997).
Il disagio che nasce da una realtà così intrinsecamente contraddittoria esercita le sue influenze negative principalmente durante il processo di costruzione dell’identità, nell’adolescenza, e non a caso il corpo (e quindi la donna in quanto corpo), quale strumento di espressione del sé, accusa gli effetti di tutto ciò. Il tipo corporeo eccessivamente snello che le donne del XXI secolo hanno idealizzato appare come un corpo derubato dell’enfasi simbolica della fertilità e della maternità. La linea della “donna nuova” vuole esprime la sua liberazione sessuale e il rifiuto del ruolo femminile tradizionale, ma non solo, molti hanno interpretato la magrezza esasperata del corpo come simbolo del rifiuto della sessualità, di una sessualità più adulta, accompagnata da una serie di trasformazioni fisiologiche del corpo, che coglie l’adolescente impreparata. Un autore inglese, Gordon, focalizzando l’attenzione proprio sull’elemento della sessualità, propone un paragone tra l’isteria, diffusasi in Inghilterra verso la fine del 1800, e la moderna anoressia. Secondo questo autore l’ambiguità e la difficoltà del ruolo femminile ai giorni d’oggi può rappresentare l’anello di collegamento con la condizione femminile dell’ambiente inglese perbenista di fine ‘800 (società profondamente maschilista e bigotta dove qualunque manifestazione di femminilità era considerata peccaminosa ed è per questa sessualità inespressa che il corpo femminile cominciava a mandare dei segnali isterici).
Ma quando la magrezza diventa rischio di vita, quando la trasparenza diventa un debole segnale di sopravvivenza possiamo pensare al raggiungimento di un ideale di libertà oppure s’innesca il dubbio, il tarlo che questa altro non sia che un’altra strada rispetto a quella della liberazione femminile, una sorta di deviazione che ha sostituito la costrizione del corsetto vittoriano con il ferreo autocontrollo e la coercizione esterna, palesemente accettata in passato (essere subordinate all’uomo), a quella interna (a se stessa). Questa naturalmente è un’ipotesi che si situa all’interno di un quadro socio-culturale più ampio. Con questo non vogliamo certo “negare” i risultati che le donne (il movimento femminista) hanno ottenuto e tutto ciò che da questo ne è derivato, ma sottolineare, laddove i confini sembrano persi, quella specificità dell’animo femminile, quell’istinto “biologicamente” materno e quelle particolari attitudini umane che la donna non può non considerare una ricchezza biologica e specifica.
Naturalmente i disturbi dell’alimentazione non si esauriscono in tutte queste motivazioni, possiamo dire che le comprendono insieme a tante altre di natura più soggettiva, la cui distribuzione in termini quantitativi varia inevitabilmente da caso a caso, da individuo a individuo, da donna a donna.
Prima di concludere, vogliamo però riflettere e condividere un ulteriore aspetto del fenomeno anoressico-bulimico. Si tratta di un aspetto, relativamente costruttivo, che chiama in causa le giovani donne, quelle appena adolescenti (nell’anima e non nel corpo) che sovraccariche di un “fardello” storico-sociale sconosciuto e che disorientate da questa società caotica e conflittuale “scelgono” di vivere d'aria, scegliendo di morire per vivere, nel tentativo di riappropriarsi di una liminalità corporea di grande efficacia simbolica, capace di esprimere armonie, fantasie, desideri di essere nel mondo come una persona e non solo come un misero corpo. I loro corpi leggeri raffigurano la potenza di chi combattendo il corpo, soffrendo, più ancora forse di chi lo asseconda con i piaceri, ha bisogno di esplorarlo, di esplorarsi, di cominciare a crescere vivendo un’esperienza capace di sottolineare la propria individualità.

Il cibo è essenzialmente e originariamente un nutrimento e fin dagli inizi della vita dell’uomo è stato consumato in un contesto interazionale con la conseguenza che è stato investito di molteplici valenze psicologiche. Tanto che solo poche altre attività umane sono altrettanto ricche di elementi sociali, ideologici, religiosi, emotivi come l’atto del mangiare. Inoltre nella storia dell’uomo si sono alternati periodi di abbondanza a drammatiche carestie e quindi periodi dove diventava difficile “controllarsi”, dato l’esubero di alimenti, a periodi di stento, di parsimonia e di mancanza.
Quando la quantità di cibo presente in una cultura supera abbondantemente il fabbisogno ( come nei paesi Occidentali) per la sopravvivenza può avvenire che il cibo acquisisca un valore simbolico che, ripetiamo, può essere di ordine affettivo, religioso, sociale.
Alcune volte può accadere che nella relazione che lega il soggetto e il cibo si manifesti un meccanismo proiettivo in cui il cibo diventa il sostituto di una persona; in questo caso entrano in gioco due elementi: il controllo e la dipendenza. Questi elementi sono gli stessi che si manifestano nelle relazioni affettive, ossia sono impliciti alla natura stessa delle relazioni affettive, infatti, può verificarsi il seguente rapporto: tanto più sono legato ad una persona affettivamente (dipendenza) tanto più rischio di soffrire se la perdo e da qui deriva la necessità di controllarla (controllo). Quando il cibo sì “carica” di una valenza affettiva, allora i soggetti incapaci di gestire gli aspetti della dipendenza e del controllo nelle relazioni con gli altri, trasferiscono tutto il loro vissuto nel cibo. Il cibo si presta molto bene a questa “strumentalizzazione”, nel senso che tutti noi siamo dipendenti dal cibo sin da quando nasciamo e poi perché oggi, nelle culture “benestanti” come la nostra, l’offerta di cibo è tanta e sostenuta da una pubblicità martellante e sempre più attraente per cui controllarsi diventa sempre più difficile. Addirittura sembra quasi che ci sia una sorta di “animismo” verso gli alimenti: “Gli spaghetti che mi provocano” o il “dolce che mi tenta”; in realtà siamo noi che proiettiamo i nostri sentimenti sul cibo.
Il pensiero di un’anoressica può essere questo: “Se io sono tanto brava da riuscire a non dipendere dal cibo, sarò anche più brava a gestire le relazioni con gli altri”. Tale tipo di ragionamento il più delle volte non è riconosciuto a livello cosciente dalle ragazze, però la capacità di esercitare un ferreo controllo fa vivere loro una sensazione di forza, potenza, superiorità nei confronti degli altri, tanto da guardare con schifo chi si piega a mangiare. Nella vita quotidiana queste ragazze, sono delle attente osservatrici a tavola e incoraggiano a mangiare (perdere il controllo) chi sta loro accanto, fratelli, amiche, fidanzato, genitori. Vedere “L’altro” mangiare le fa sentire forti, potenti e per questo diventano anche delle brave cuoche disposte a trascorrere ore tra i fornelli, sostituendosi anche alle madri, a preparare menù prelibati ma senza cedere mai alla “tentazione” di mangiare. Ciò significherebbe perdere il controllo, cedere anche loro, come tutti gli altri del resto, alle tentazioni terrene del cibo e rischiare di ingrassare, e questo per l’anoressica è inaccettabile. Si apre qui un altro aspetto del disturbo, ossia quello legato al rapporto del soggetto con il proprio corpo.
Sappiamo come presso i Greci il corpo, pura necessità biologica, era fuori dallo spazio politico, basato sulla ragione pura, incorporea. Il corpo era considerato donna e la donna era corpo. Il maschio si era riservato la potenza del "logos", sradicandosi da un'esistenza carnale, quasi animale, preumana, quindi femminile. Per migliaia d'anni la donna è stata confinata nei territori del corpo. Anche oggi per la donna le cose non sono cambiate molto, “l’apparenza”, l’aspetto fisico, restano il miglior biglietto da visita per ogni occasione sociale.
Un corpo grasso oggi è un corpo non desiderabile.
Perché la moda richiede di essere magre e sofisticate e si è capovolto il significato sociale che veniva attribuito all’essere grassi e magri in passato: essere grassi significava benessere, ricchezza e il prototipo di corpo femminile idealizzato fino a tutto il diciassettesimo secolo era caratterizzato da forme opulente che si accentuavano sul ventre (modello riproduttivo), mentre oggi colui che ingrassa è un debole, uno che non ha sostanza e espressioni di “discriminazione-criminalizzazione-esclusione” sono ormai diffuse tra bambini, adolescenti e adulti. Le donne sono le vittime principali perché è aumentato il narcisismo femminile: alla donna più che all’uomo è richiesto dalla società di essere bella (magra), perché la donna anche nella nostra società tecnologica è rimasta “corpo”. E il corpo desiderato, che si identifica nella magrezza, come segno eccentrico di femminilità, sovverte le regole della potenza della produzione del maschile. In questo senso le modelle alla Twiggy degli anni '60 e '70, ritornate alla ribalta dal recente fatto di cronaca della quindicenne anoressica Lucy Coper, hanno rappresentato un tentativo di normalizzazione della magrezza, riducendola a spettacolo e trasformandola in un “simbolo” della donna nuova.
Quasi tutti gli studi sulla donna sono in realtà studi sul suo corpo, sui significati politici e sociali che veicola implicitamente. Un corpo che rappresenta in modo ambivalente una gabbia che limita l'orizzonte femminile, ma anche la chiave per uscirne. Tutti i discorsi che parlano di liberazione della donna utilizzando il linguaggio del corpo senza consapevolezza dei fili che lo legano al linguaggio del potere, non fanno altro che incanalare una presunta liberazione nei binari che la società predispone. Alle tecniche repressive di una volta si è sostituito nella nostra cultura il dovere di valorizzare il corpo esponendolo a un controllo sociale, che lo svuota della sua carica eversiva. Dalle tecniche alternative come la bioenergetica, la danzaterapia, il recupero del parto in casa fino ai modelli più stereotipati di bellezza e salute femminile (e anche di nudo femminile) dettati dalla moda e amplificati dai mass media, tutto spinge la donna verso il corpo.
E’ ancora il corpo femminile quello più sfruttato e strumentalizzato dal mondo dell’immagine e della televisione per scopi di marketing di prodotti dietetici, ultimo grande “business” del nostro secolo. Il canone estetico proposto dalla pubblicità e dai mass media, ha contribuito ad alimentare l'ideale estetico della magrezza. Interessanti dati emergono dai risultati di un'indagine svolta da Anna Becker (un'antropologa dell'Harvard Medical School) sul cambiamento di attitudini verso il cibo e l'ideale corporeo degli adolescenti delle isole Fiji' (Figi) negli ultimi dieci anni. Nel piccolo arcipelago, dove per tradizione si è sempre apprezzato un fisico massiccio e "rotondeggiante", si è verificato, dopo l'arrivo della televisione nel 1995 un elevato incremento delle diete nonché di disturbi alimentari (sia anoressia che bulimia). Secondo i ricercatori dell'Harvard Medical School la comparsa di tali disturbi sarebbe legata alle immagini ed ai valori veicolati dai programmi televisivi occidentali, imperniati sull'ideale estetico della magrezza. Questo studio seppur parziale contiene alcuni elementi interessanti e ampiamente generalizzabili (fonte BBC online network, BBC news, 20 may 1999) .
La donna di oggi, proprio perché è ancora “corpo”, per essere “accettata” e “rispettata” deve conformarsi fisicamente ai canoni estetici di moda. (Questo “processo”, notiamo, inizia molto presto nella vita della bambina basti pensare come un ideale di bellezza del nostro secolo sia incarnato nella bambola della Barbie. Uno studio di Moser del 1989 ha rilevato che una donna media americana per conformarsi alle misure della Barbie dovrebbe aumentare la propria circonferenza seno di 30 cm., ridurre la circonferenza vita di 25 cm. e essere alta più di 2 metri!)
Ma cosa implica l’essere “accettata/rispettata” oggi? Questa domanda porta in sé una serie di problematiche più ampie e complesse e connesse, in certi aspetti, al cambiamento del ruolo della donna in questi ultimi decenni e al raggiungimento della tanta auspicata parità dei diritti con l’uomo.
Le giovani di oggi si trovano in una condizione di marcata ambiguità in relazione al ruolo femminile, in quanto la società manda due messaggi profondamente contrastanti: da un lato si parla di donna manager, intelligente, colta e indipendente; dall’altro lato, permane l’immagine femminile collegata alla cultura delle nostre nonne, di una donna non colta, sottomessa, che accetta passivamente i compiti sessuali e materni. Si tratta di due modelli “apparentemente” accessibili e diversi, dico apparentemente in quanto alla donna di oggi non è di fatto permesso di “scegliere” l’uno o l’altro, perché nella maggior parte dei casi – sia per ragioni imposte dall’esterno (economiche) o dall’interno (psicologiche) – la donna deve soddisfarli entrambi. Le si richiede quindi di essere perfetta nelle sue tradizionali attività femminili (cura della casa, allevamento dei figli, assistenza ai famigliari più anziani), e nello stesso le si richiede lo sviluppo di quelle capacità di penetrazione sociale e lavorativa quali, determinazione, spregiudicatezza nel fare carriera, dedizione al lavoro, indipendenza economica, prerogative queste che erano un tempo appannaggio del sesso maschile .
Apparentemente quindi la donna ha davanti diverse possibilità di scelta, cosa invece non permessa alle loro madri, ma ogni scelta comporta la rinuncia di aspetti ancora importanti e presenti per la propria realizzazione: importanti sono gli aspetti femminili rappresentati dalla madre, e importanti anche quelli maschili rappresentati dal padre. Spesso i due aspetti non sono integrati nella coppia genitoriale, per cui il solo fatto di scegliere provoca un conflitto. (Santoni Rugiu, Calò, De Giacomo, 2000).
Allora la donna per mascherare la frustrazione derivante da una scelta e per mettere a tacere l’angoscia che da questa ne deriva, accetta palesemente un modello, ma dentro di sé si ripromette di soddisfarli entrambi. E’ un pensiero onnipotente e pericoloso, che però serve da “scudo” ad un ansia di cui non si riesce ancora ad accettarne le origini: è più facile di fatto resistere alla tentazione della fame che soddisfare le rigide aspettative che la “donna nuova” si è prefissata.
Queste teorie trovano anche conferma nell’ ipotesi di Katzman e Lee, che sostengono, come in società in transizione dalla civiltà contadina a quella industriale, le adolescenti potrebbero sviluppare il disturbo alimentare non solo per imitazione degli ideali socioculturali di bellezza occidentale, ma anche come reazione ad una situazione di elevata emotività intrafamiliare, tipica della famiglia in transizione dal modello patriarcale a quello moderno (Katzman e Lee, 1997).
Il disagio che nasce da una realtà così intrinsecamente contraddittoria esercita le sue influenze negative principalmente durante il processo di costruzione dell’identità, nell’adolescenza, e non a caso il corpo (e quindi la donna in quanto corpo), quale strumento di espressione del sé, accusa gli effetti di tutto ciò. Il tipo corporeo eccessivamente snello che le donne del XXI secolo hanno idealizzato appare come un corpo derubato dell’enfasi simbolica della fertilità e della maternità. La linea della “donna nuova” vuole esprime la sua liberazione sessuale e il rifiuto del ruolo femminile tradizionale, ma non solo, molti hanno interpretato la magrezza esasperata del corpo come simbolo del rifiuto della sessualità, di una sessualità più adulta, accompagnata da una serie di trasformazioni fisiologiche del corpo, che coglie l’adolescente impreparata. Un autore inglese, Gordon, focalizzando l’attenzione proprio sull’elemento della sessualità, propone un paragone tra l’isteria, diffusasi in Inghilterra verso la fine del 1800, e la moderna anoressia. Secondo questo autore l’ambiguità e la difficoltà del ruolo femminile ai giorni d’oggi può rappresentare l’anello di collegamento con la condizione femminile dell’ambiente inglese perbenista di fine ‘800 (società profondamente maschilista e bigotta dove qualunque manifestazione di femminilità era considerata peccaminosa ed è per questa sessualità inespressa che il corpo femminile cominciava a mandare dei segnali isterici).
Ma quando la magrezza diventa rischio di vita, quando la trasparenza diventa un debole segnale di sopravvivenza possiamo pensare al raggiungimento di un ideale di libertà oppure s’innesca il dubbio, il tarlo che questa altro non sia che un’altra strada rispetto a quella della liberazione femminile, una sorta di deviazione che ha sostituito la costrizione del corsetto vittoriano con il ferreo autocontrollo e la coercizione esterna, palesemente accettata in passato (essere subordinate all’uomo), a quella interna (a se stessa). Questa naturalmente è un’ipotesi che si situa all’interno di un quadro socio-culturale più ampio. Con questo non vogliamo certo “negare” i risultati che le donne (il movimento femminista) hanno ottenuto e tutto ciò che da questo ne è derivato, ma sottolineare, laddove i confini sembrano persi, quella specificità dell’animo femminile, quell’istinto “biologicamente” materno e quelle particolari attitudini umane che la donna non può non considerare una ricchezza biologica e specifica.
Naturalmente i disturbi dell’alimentazione non si esauriscono in tutte queste motivazioni, possiamo dire che le comprendono insieme a tante altre di natura più soggettiva, la cui distribuzione in termini quantitativi varia inevitabilmente da caso a caso, da individuo a individuo, da donna a donna.
Prima di concludere, vogliamo però riflettere e condividere un ulteriore aspetto del fenomeno anoressico-bulimico. Si tratta di un aspetto, relativamente costruttivo, che chiama in causa le giovani donne, quelle appena adolescenti (nell’anima e non nel corpo) che sovraccariche di un “fardello” storico-sociale sconosciuto e che disorientate da questa società caotica e conflittuale “scelgono” di vivere d'aria, scegliendo di morire per vivere, nel tentativo di riappropriarsi di una liminalità corporea di grande efficacia simbolica, capace di esprimere armonie, fantasie, desideri di essere nel mondo come una persona e non solo come un misero corpo. I loro corpi leggeri raffigurano la potenza di chi combattendo il corpo, soffrendo, più ancora forse di chi lo asseconda con i piaceri, ha bisogno di esplorarlo, di esplorarsi, di cominciare a crescere vivendo un’esperienza capace di sottolineare la propria individualità.


Autore: Dott.ssa Cristina Grassini (Siena) Psicologa dello Sviluppo e dell'Educazione e Mediazione Familiare.
Recapiti: cell. 349-1344650, e-mail: cristinagrassini@interfree.it
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