martedì 9 marzo 2010

DCA: cosa si cela dietro ad un sintomo che coinvolge corpo e cibo? (Prima parte) di Cristina Grassini

I disturbi del comportamento alimentare (DCA), in particolare modo l’anoressia e la bulimia, costituiscono al giorno d'oggi un importante capitolo della patologia psicosomatica adolescenziale, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, sia per le numerose vittime, che pari all’AIDS e al fenomeno della tossicodipendenza, mietono; tanto che il Ministero della Sanità, già da alcuni anni, li ha considerati delle vere e proprie epidemie e inseriti nel novero delle malattie sociali.
I DCA, sono attualmente un oggetto d’attenzione preferenziale anche dei mezzi di comunicazione di massa e tante informazioni vengono divulgate, talvolta anche al limite della banalità.
Il fenomeno, per la sua gravità e diffusione, è degno d’attenzione, ma crediamo che tanto interesse trovi ragione di esistere anche in base al fascino e ai diversi significati simbolici, che il cibo, il corpo magro, il digiuno, evocano in ognuno di noi. E così è stato da sempre, anche in passato le streghe venivano riconosciute in base al loro peso, un corpo emaciato si riteneva venisse cibato di nascosto dal diavolo e tanto ha sofferto Santa Caterina da Siena per essere stata ritenuta una strega. Ma il corpo magro, nel Medioevo, paradossalmente, si ripresenta anche nel corpo fisico delle Sante, come simbolo di purezza, di verginità, in nome di quell’ascetismo cristiano che fonda le sue origini nel pensiero di Platone che riteneva che la liberazione dell’anima si poteva realizzare tramite l’astinenza dal cibo. Più tardi, alla fine del XIX secolo, la magrezza estrema, diventa oggetto dell’attenzione pubblica solo per la sua macabra spettacolarità. Forse allo stesso pari, attrae il comportamento anoressico restrittivo delle ragazze di oggi: difficile non stupirsi di fronte alla forza di volontà di un soggetto che, da un giorno all’altro, decide di smettere di mangiare e di soffrire la fame e spontanea diventa, allora, chiedersi cosa si celi dietro a tale comportamento. Perché il soggetto disdegna un bene tanto prezioso e raro ancora oggi in molte parti del mondo? Ma tanti altri comportamenti, riti e ossessioni destano stupore nell’osservatore e sollevano il dubbio che quel sintomo, quel comportamento non la dica tutta. Cosa rappresenta il cibo per questo soggetto? Quale altra funzione può avere oltre a quella di “mero” nutrimento?
A questo punto dobbiamo ricordare che il termine di Anoressia è fuorviante e paradossale rispetto alla sostanza del disturbo, in quanto sebbene il suo significato sia "mancanza nervosa di appetito", le persone affette da questo disturbo non perdono l’appetito, ma si rifiutano volontariamente di mangiare soffrendo la fame.
Le risposte alle nostre domande come le ipotesi, sono state date a milioni, ma ancora oggi, dopo tanti anni di attenzione esasperata al fenomeno, ufficialmente non è possibile riconoscere quale sia l’eziologia del fenomeno e la terapia più adatta.

Intorno all’argomento prolifera un copioso ed eterogeneo dibattito teorico, dove i diversi paradigmi teorici propongono le proprie interpretazioni eziologiche e i propri modelli terapeutici d’intervento.
Gli orientamenti che considerano il sintomo anoressico-bulimico come la punta di un “iceberg” di un più esteso disagio adolescenziale, relazionale e familiare, sono riconducibili al filone psicodinamico. Questi approcci mirano alla scoperta del disagio sommerso, attraverso un’analisi generale e profonda dell’individuo; con la speranza che la soluzione di problematiche irrisolte equivarrà alla scomparsa del sintomo. Gli approcci di questo filone, sostengono come non esista una psicopatologia alimentare altro che come stile o tendenza (socio-culturale) e non considerano l’anoressia e la bulimia un disturbo dell’appetito, ma un male profondo dell’animo umano, caratterizzato da tanta sofferenza, senso di colpa, insicurezza; ma anche un male collegato all’avere un corpo femminile, all’essere donna, all’essere donna oggi. Il sintomo, è considerato una sorta di etichetta, con una struttura specifica, costituitasi a copertura di una “falsa personalità” nata a seguito di eventi “difettosi” verificatisi nel corso della vita del soggetto o anche prima. L’adolescenza, quale momento di costruzione e di ricerca dell’identità, riattualizzerebbe queste problematiche non risolte, utilizzando un sintomo alimentare. Il sintomo in se stesso, viene ritenuto in grado di dire poco sul disagio che dietro vi si cela, ma quel poco è considerato molto importante, perché permette di stabilire una prima comunicazione (starà al terapeuta poi ampliarla) e di operare una selezione tra le tante possibili informazioni. Ma, allora, qual’è il significato di un sintomo alimentare? Si ipotizza che le problematiche non risolte del soggetto possano avere a che fare con paure (traumi) con caratteristiche alimentari (paure di essere divorati, frammentati, fagocitati, espulsi) oppure ed anche, che tali problematiche si siano realizzate nel primo momento significativo di vita del bambino, quando l’alimentazione costituiva l’unico mezzo di contatto e di comunicazione tra lui e la madre. La psicoanalisi, in particolare, accoglie la rappresentazione soggettiva del cibo quale surrogato materno amato o odiato che sia e carico di tutti gli impulsi voraci, invidiosi e angosciosi ( inconscio individuale) e tenta di capire quanto il soggetto è stato influenzato dalla cultura e subordinato alla legge dell’apparire e dell’estetica, ma soprattutto e principalmente quanto le sue esperienze di vita hanno influito sul disturbo
( inconscio generazionale).

Altri approcci, diversamente, pongono il sintomo anoressico-bulimico in primo piano e particolare attenzione viene posta a quelle che sono le sue manifestazioni osservabili e agli aspetti percettivi e cognitivi. Il modello cognitivo-comportamentale, sostiene fondamentalmente, un’eziologia multifattoriale, dove il disturbo si sviluppa per interazione multipla e complessa di numerosi fattori di rischio e precipitanti, e perpetuati da numerosi fattori di mantenimento specifici (presenti solo nei DCA) e non specifici (presenti anche in altri disturbi mentali).
Il meccanismo centrale nel mantenimento dei DCA è riconosciuto nella presenza di uno schema disfunzionale di autovalutazione: mentre le persone in genere si valutano in base alla percezione delle loro prestazioni in una varietà di domini della loro vita (es. relazioni interpersonali, scuola, lavoro, sport, abilità intellettuali, abilità genitoriali, ecc.), quelle affette da DCA si valutano in modo esclusivo o predominante sulla base del peso o delle forme corporee o del controllo dell’alimentazione (spesso su tutte e tre le caratteristiche). Lo schema di autovalutazione disfunzionale è di primaria importanza nel mantenimento del disturbo; la maggior parte delle altre caratteristiche cliniche deriva, infatti, direttamente da questa psicopatologia nucleare. Ad esempio, la preoccupazione per l’alimentazione, il peso e le forme corporee, i comportamenti non salutari di controllo del peso (dieta ferrea, esercizio fisico eccessivo, vomito auto-indotto, uso improprio di lassativi o di diuretici), i comportamenti di controllo dell’alimentazione e del corpo, gli evitamenti dell’esposizione del corpo si possono verificare solo se una persona attribuisce un’eccessiva importanza al peso, alle forme corporee e al controllo dell’alimentazione.
Il modello sistemico, “legge”, non solo il sintomo, ma anche l’individuo, la sua condotta, la sua personalità, in chiave interpersonale e la famiglia diviene il contesto d’indagine preferenziale. A livello, psicoterapico, gli approcci di questo paradigma si caratterizzano per la breve durata e sistematicità (si presta più attenzione a come un paziente sia simile che differente agli altri, anche sulla base di sintomi analoghi) dei loro interventi, specie in contrapposizione agli interventi psicodinamici e per il ruolo periferico che viene conferito all’esperienza soggettiva.
Un altro aspetto importante è quello relativo al concorso significativo nella genesi del disturbo di variabili sociali e culturali credendo che possano spiegarne alcuni aspetti importanti e quindi permetterci di approfondire anche l’ipotesi di una predisposizione “strutturale femminile” ai DCA, consapevoli che la diffusione esponenziale degli ultimi anni del disturbo rende evidente il nesso fra premesse culturali e sindromi psicopatologiche.

Autore: Dott.ssa Cristina Grassini, Psicologa dello Sviluppo e dell'Educazione e Mediazione Familiare (Siena) cell: 349-1344650
e-mail: cristinagrassini@interfree.it
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